Oggi incontro Tommaso Avati e cercherò di rubargli i segreti del suo mestiere, quello di scrivere.
Tommaso, grazie di cuore per il tempo che ci dedichi. Hai dichiarato che con la tua scrittura cerchi di far sorridere e riflettere.
La prima domanda che desidero farti è: chi vuoi far sorridere? Chi vuoi far riflettere? Te stesso in primis oppure hai in mente un interlocutore in particolare, come direbbero gli americani un target group?
TA: È una bella domanda. Per chi scriviamo, veramente? Difficilissimo rispondere. E forse non esiste una risposta univoca. A volte lo facciamo per noi, per quella esigenza insopprimibile di dover dire qualcosa.
Si dice che per poter scrivere bisogns avere molte cose da dire; io in realtà ho sempre creduto che per poter scrivere si debba avere anche una sola cosa da dire, ma che si debba avvertire enormemente il bisogno di dirla.
Ci sono scrittori, ma anche registi, che continuano a ripetere sostanzialmente la stessa opera, lo stesso racconto, lo stesso film, perché hanno il bisogno estremo di dire quella cosa precisa. Io credo di appartenere a questa categoria, di chi forse non ha moltissime cose da dire ma ne ha una, grande e un po’ ingombrante, che deve essere detta sui libri e sulle sceneggiature perché nella vita reale non sono capace di farlo…
È questa necessità impellente di dover tirare fuori il rospo, spesso, che rende uno scrittore tale. Quindi sì, sarei tentato di dire che si scrive soprattutto per se stessi, perché nella vita vera, quella che riparte dopo aver spendo il computer o coperto la macchina da scrivere, non siamo molto bravi…
Hai anche detto che la scrittura per te è stata una conquista.
TA: Mio padre mi ha sempre spinto a scrivere, ha voluto con tutto se stesso che diventassi uno sceneggiatore e lo ha voluto talmente tanto che ad un certo punto ho avuto il dubbio, mi sono insospettito ed ho smesso di volerlo io. Infatti c’è stato un momento in cui mi sono opposto, allora ho studiato, mi sono laureato, ho pensato per un po’ di voler fare il regista invece, o comunque altre cose.
E solo dopo, in un secondo momento ho ricominciato ad apprezzare il mondo della scrittura. Ed ecco che l’ho dovuta conquistare, lo sto facendo tuttora nel senso che essere figlio di uno scrittore e sceneggiatore ti pone sotto una luce piuttosto scomoda: sei, e sarai sempre, il “figlio di”. La gente, là fuori, si aspetta infatti sempre moltissimo da te proprio perché hai quel cognome. E persino in casa, mio padre si è sempre aspettato moltissimo da noi, proprio perché pensava sulle nostre teste questa sorta di “peccato originale”. Proprio perché eravamo suoi figli.
Scrivi libri, scrivi sceneggiature. Dove ti senti più libero e perché?
TA: Nessun dubbio: nei libri. Il romanzo è la forma letteraria più libera che esista. Una sceneggiatura è per definizione (di Pasolini) una struttura che ambisce a diventare altra struttura, quindi un lavoro in progress, sempre, poiché una volta che l’hai terminata la passi al produttore, che ci mette le mani, e poi al regista, che oltre a metterci le mani deve trasformare le tue parole su carta in dialoghi reali, e quindi sostanzialmente riscriverle, rielaborarle e interpretarle. Invece, nella grande immensa, desolata, terribile e temibile prima pagina bianca del romanzo sei solo, ci sei solamente tu.
E questo può far paura, effettivamente ne fa come cerco di insegnare nei miei corsi di scrittura e di sceneggiatura, ma è una paura inebriante, perché dopo un po’ quella immensa zona bianca comincia a popolarsi di personaggi, che sono tuoi, anzi, sono te, e ti fanno compagnia comportandosi esattamente come vuoi tu, fino alla fine.
Cosa c’è di più libero di questo?
Quante regole devi o vuoi seguire quando lavori su una sceneggiatura e quali sono le tue regole per scrivere un libro?
TA: Ce ne sono tante, troppe. E il bello è che queste regole hanno poco di regolare, perchè cambiano ogni volta. Diciamo che nel mondo delle sceneggiature soprattutto ci si aiuta con la regola dei tre atti: si sa cioè dove e quando dovrebbe accadere qualcosa, fino a che punto, cioè, è lecito tirare una traccia narrativa.
Ma nel romanzo tutto questo ha un valore molto relativo. Quanti racconti meravigliosi si divertono a mandare per aria la regola dei tre atti? Moltissimi, e a buon diritto perché la loro forza spesso sta proprio nel fatto di essere completamente destrutturati.
Se devo però riflettere sulla tua domanda e volere trovare una riposta vera, posso dire che una regola autentica, che funzioni sia per i romanzi che per le sceneggiature è quella dell’onestà.
E non significa, ovviamente raccontare sempre e solo quel che si sa, o la verità, sarebbe folle. Significa invece essere in grado di raccontare qualsiasi cosa senza però snaturare la nostra profonda essenza, rispecchiando il nostro profondo io senza ricorrere a trucchetti facili che mirino ad ottenere un qualche effetto assicurato.
Uno scrittore, cioè, deve essere in grado di scrivere la propria storia come se fosse la storia di tutti, e la storia di tutti come se fosse la propria.
Quando inizi a scrivere, qual è per te la parte più difficile di una sceneggiatura e quale la parte più difficile di un libro?
TA: Nella sceneggiatura, una volta che hai una buona Logline, e cioè l’idea, si può dire che sei a cavallo nel senso che una buona idea, davvero forte e originale, il più delle volte è capace di alimentare la tua scrittura per tutta la stesura della sceneggiatura.
Il romanzo è un continuum talmente fitto, corposo, mobile, vasto e avvolgente che a volte è difficile capire quale ne sia il vero tema portante.
Chiedo sempre ai miei studenti di domandare a se stessi, mentre stanno scrivendo, e di farlo il più spesso possibile: che storia è? Di cosa parla veramente? E chiedo loro di porsi questa domanda sempre, mettendosi alla prova.
Perché mentre scriviamo il tema cambia, quasi sempre, e non è un problema che cambi, anzi. I problemi cominciano se non abbiamo più chiaro su cosa stiamo scrivendo.
Hai scritto 2 romanzi. Raccontaci le differenze che hai sentito nel processo creativo fra il tuo primo e il tuo secondo libro.
TA: Sono due storie molto diverse. In tutto. Il primo l’ho scritto in sei mesi, è un racconto molto autobiografico in cui ho cercato, per come è strutturato, dialogato e costruito, di strizzare l’occhio al cinema.
Nel secondo caso ho cercato di dimenticare i film e di pensare solo alla scrittura, di fare un racconto insomma in cui si sentissero molto i pensieri dei personaggi, dei due protagonisti (il marito e la moglie), dimenticando per un momento quanto sarebbe stato giusto descrivere o fare accadere se invece si fosse trattato di un film.
Quando scrivi, segui una routine di lavoro? Sei metodico (tot ore tutti i giorni sempre di giorno, di notte)? Oppure scrivi ogni volta che hai l’ispirazione?
TA: Scrivere è un mestiere, e non si sceglie se lavorare o meno. Lo si fa. Ciò significa che anche nella scrittura ci si deve dare degli obblighi, ci si deve imporre di scrivere per un tempo prestabilito ogni giorno.
Ray Bradbury che ha scritto uno dei manuali di scrittura creativa più interessanti che esistano, diceva qualcosa del tipo: se non scrivo per un mese se ne accorge il mio pubblico, se non scrivo per un settimana se ne accorge il mio agente, se non scrivo per un giorno me ne accorgo io…
Il blocco dello scrittore, per te esiste?
TA: Eccome. Ne esistono persino diversi tipi. Io ne ho sperimentati due. Il primo è più insidioso forse: ci si blocca perché c’è qualcosa che non va dentro di noi, nella nostra testa, perché non siamo a nostro agio con noi stessi, non crediamo nelle nostre possibilità o perché la vita ci opprime per altre ragioni che magari fatichiamo persino a riconoscere. Questo tipo di blocco si mostra a volte sotto mentite spoglie e, essendo difficile da riconoscere è quasi impossibile da superare.
Poi c’è un altro genere di blocco che, tanto per complicare le cose, a volta si mostra sotto l’aspetto del primo, ma in realtà non ha nulla a che fare con te e quel che accade nella tua testa: riguarda infatti SOLO e unicamente la storia che stai scrivendo. Per fortuna i blocchi di questo tipo sono i più frequenti e per superarli, il più delle volte, basta fare qualche passo indietro, raggiungere cioè il punto del tuo racconto in cui le cose hanno smesso di entusiasmarti, avere il coraggio di buttare quel che non va, e ripartire con fiducia.
A cosa stai lavorando in questo momento?
TA: Ho appena terminato un romanzo che uscirà nel 2022 con Neri Pozza.
Posso chiederti di regalarci una piccolissima anticipazione?
TA: È il racconto tutto al femminile di una famiglia, attraversa ottanta anni di storia di questo paese e ha al suo centro il tema della diversità.
Hai detto che il romanticismo non è la tua cifra stilistica, ma le tue foto sembrano smentirti (tutte le foto in bianco e nero di questo post sono state scattate da Tommaso Avati).
TA: Hahaha… è vero, a volte infatti, riguardandole, ammetto di sentirmi un po’ in imbarazzo…
Termino tutte le mie interviste chiedendo anche a te qual è la domanda alla quale ti piacerebbe rispondere e che non ti ho fatto?
TA: Si chiede sempre, agli scrittori, cosa stiano scrivendo o cosa abbiano in cantiere per il futuro ma non si chiede quasi mai cosa stiano leggendo.
Credo sia una domanda importante, e che da quella risposta dipendano tante cose nella vita dello scrittore e sopratutto di quel che produrrà. Io commetto sempre l’imperdonabile errore di leggere più libri contemporaneamente.
Ma in questo preciso momento, quello che mi sta appassionando di più, è la meravigliosa, articolata e sontuosa biografia che Sartre scrisse su Flaubert.
Grazie mille, Tommaso, per aver condiviso i tuoi segreti sul mestiere di scrivere. Spero davvero di poterti ospitare nuovamente, magari in anteprima, per il lancio del tuo prossimo lavoro.
Tommaso Avati (Bologna 1969) si è laureato in Comunicazione con una tesi sui racconti di Raymond Carver e il cinema di Robert Altman. Ha collaborato a sceneggiature e soggetti come La prima volta di Massimo Martella e Quell’estate di Guendalina Zampagni e alla stesura di diversi film tv come Un matrimonio, Il bambino cattivo, Con il sole negli occhi, Le nozze di Laura. Ha scritto insieme al padre il soggetto per il film Il ragazzo d’oro, che ha vinto il premio per migliore sceneggiatura al festival di Montreal.
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